Sapore d'inconscio
Non amarsi un po' è come giocare a scacchi sulla spiaggia con-la-morte-vista-mare in Rifkin's Festival
Una placchetta d’argento lustrata appesa alla porta d’ingresso recitava Dottor Luca Solferino, Psicoanalista ed era esattamente sotto a quell’epitaffio rettangolare che avevo attaccato con soddisfazione un post-it. Era appena iniziata l’ennesima estate italiana e mi ero chiusa la pesante porta blindata di legno alle spalle. Il tutto aveva un che di ellittico. Erano le sei e quaranta di mattina; avevo indosso delle Birkenstock, dei pantaloncini di jeans chiari Levis e una maglietta nera oversize dei Joy Division con la cover di “Unknown Pleasure” stampata sopra - al posto dell’intimo avevo un costume intero che sentivo ancora umido sulla sua pelle e sul mio sesso - tutto era, insomma, impastato di salsedine. Inconscio e anticamera dell’inconscio compresi. Non ero uscita però da una seduta di psicoterapia, né tanto meno da casa di un’amante o del mio ragazzo: da che cosa nello specifico fossi uscita era una domanda alla quale in quel momento non ero in grado di dare una risposta. Ma non ero scappata, no, no e ancora no; né era solo meccanicamente uscita. La libertà con la sua ingombranza concettuale e con la sua tetta di fuori con le sue velleità democratiche come nel celebre quadro di Delacroix non andava scomodata, neanche a livello iconografico, come catalizzatrice di quell’insulso moto da luogo.
Su quella chaise longue di Le Corbusier in pelle nera, sita in uno studio di psicoanalisi in un palazzo nel centro di Genova, non mi ero difatti mai sdraiata, né avevo mai inserito la mia carta nel POS preposto per pagare quei sessanta minuti di ascolto, annuii e concatenazioni di neri su bianchi scritti in un corsivo incomprensibile (più comprensibili di quello dei medici di base, ma comunque ugualmente respingente a livello calligrafico). Quella mattina, fuori da quella cortina lignea, al guinzaglio di fianco a me, alla mia sinistra, stava seduto il mio pastore tedesco: Bruno. Ma essere appena uscita dalla casa di uno psicanalista freudiano con un cane che apparteneva alla stessa razza di quello appartenuto ad Adolf Hitler era solo l’ultima delle antifone che avevo dovuto esperire in quegli ultimi due giorni. “L’atto mancato è un fenomeno psichico che consiste in un errore d’azione: si vorrebbe fare una certa azione e invece se fa un’altra. Per esempio a una cena importante si cerca di prendere un bicchiere di vino dal tavolo e invece ci si scontra con le dita contro il bicchiere facendolo rovesciare, e profondendosi in scuse poi con tutti gli ospiti. Sembrerebbe un atto involontario ma sottoposto a indagine psicoanalitica, potrebbe essere spiegato come una voglia non cosciente di farsi notare”, scendendo dall’ascensore, lessi su Wikipedia la definizione di “atto mancato". Mi accorsi a un certo punto che lo stavo facendo ad alta voce, con un tono alquanto retorico, come un prete o un insegnante che cercano di calcare con la voce alcune parole rispetto ad altre per far si che diventino più epidermicamente preposte ad essere apprese. Mi guardai imbarazzata allo specchio dell’ascensore e ricondussi, in maniera fin troppo naturale, quel tipo d’imbarazzo a quel tipo specifico di imbarazzo che provavo ogni volta al supermercato quando compravo la carta igienica. Si trattava di quel tipo d’imbarazzo che quando si palesa non può che ricordarti in maniera delicata ma persistente la tua umanità nella sua più intima resilienza al pudore.
“Buona notte Sofia, consideralo un atto mancato”; così mi aveva detto Luca spegnendo la luce del lampadario del soggiorno. Aveva usato un tono molto paterno. “Anche a te”, dissi non staccando gli occhi dall’ultimo romanzo di Sally Rooney che stava fingendo di leggere appoggiata allo schienale del divano con le gambe rannicchiate al petto e Bruno accucciato in posizione fetale ai piedi. “Ho lasciato qui una ciotola con dell’acqua per Arturo”, disse Luca. La ciotola era appoggiata sul tappeto vicino al pianoforte sito esattamente davanti al divano. “Non essere nervosa”, disse lui. “Non sono nervosa” dissi, mentendo, “Il mio cane si chiama Bruno comunque” aggiunsi in tono laconico, “Buona notte”. In quanto giovane sceneggiatrice, mi trovavo a Sestri Levante per un festival di cinema indipendente che si teneva quella settimana e in cui era in concorso un film che avevo scritto. Giovedì, poco prima di prendere il treno, avevo postato una stories su Instagram chiedendo se qualcuno che conoscevo fosse nella riviera ligure di levante in quei giorni. Luca mi aveva risposto: “io” e reaction con fiammate. La più classica delle piromanie digitali che non estingue ancora di più gli animali in via di estinzione, ma solo la poesia nel mondo.
Io e Luca ci eravamo conosciuti su Tinder tre anni fa e ci eravamo tenuti con una sorta di filo di bava dialogico in contatto con il DM di Instagram negli ultimi anni, senza tutta mai esserci mai visti prima di quel fatidico sabato. Luca era uno psicoanalista freudiano; era bello e muscoloso. Insomma, per me Luca era già la versione woody alleniana di Massimo Ciavarro. E anche io avevo una certa somiglianza con Eleonora Giorgi; o almeno ne ero la versione “Valeria Bruni Tedeschi”. Eravamo andati a cena quel sabato sera, in un ristorante vista mare a Sestri. Lui stava tornando in macchina dall’ospedale milanese in cui lavorava e io mi si sarei diretta al ristorante dopo la conferenza stampa del film. Nella mia testa, che per deformazione professionale creava incessantemente storie, mi immaginavo già tornare con lui da Milano (città in cui risiedo) ogni fine settimana e fare sesso subito dopo sulla spiaggia tra le pagine ingiallite dei libri e degli inserti culturali dei quotidiani. Piuttosto che posare come la coppia perfetta sulla chaise longue di le Courbusier per la troupe di Elle Decor. A cena, gli avevo parlato del mio romanzo che stava per uscire, in cui la protagonista sotto l’effetto del crack e presa da una psicosi allucinatoria delirava con il fantasma di Freud; lui mi raccontava che lavorava tra Genova e Milano e non smetteva di ridere per quello che dicevo.
Lui mi riaccompagnò all’hotel con la sua Mercedes cabrio sul cui cruscotto campeggiava un saggio di Alain Ehrenberg intitolato “La fatica di essere se stessi” e un pacchetto di cicche Brooklyn al gusto cannella.
La prima cosa che avevamo diviso era stata una grigliata di pesce e io avevo la certezza empirica che non sarebbe stata l’ultima cosa che avremmo diviso. Per la prima volta, dopo tanto tempo, ebbi la sensazione di parlare con un uomo intelligente quanto me (lo so, suona arrogante ma è la verità); quando poi lui in cassa prima di pagare usò l’espressione “è stata una cena pantagruelica”, accavallai le gambe da in piedi perché mi sentii eccitata; quel gesto, così animale, in risposta a quell’aggettivo che dava lustro all’homo sapiens, era una forma di contenimento del piacere che stavo provando. It’s a match. Fumammo una canna alla baia del silenzio, Bruno si era buttato in acqua e Luca si era tolto i suoi occhiali da vista Persol dicendo che voleva smettere di vedere nitido per godersi il momento. Parlammo di relazioni, della violenza estrema degli allevamenti intensivi, del colore artificiale dei salmoni che non mangiano più gamberetti, della prossemica di Putin, dei fiori di Mrs Dalloway, dei negozi di fiori davanti ai cimiteri, del fatto che nessuno dei due al momento fosse fidanzato, di quanto fosse bello andare in vacanza sulle isole vulcaniche a giugno, più che ad agosto ed entrambi concordammo sul fatto che stare in un rapporto stabile ti rendesse in un qualche modo più chiuso e meno centrifugo nei confronti della vita. Stare con qualcuno era come essere un Pokemon che non può uscire dalla sfera pokè. Gli citavo i passi preferiti delle mie sceneggiature di Charlie Kaufmann, lui degli studi psicanalitici più romantici come uno di fine ottocento che aveva dimostrato che se i bambini non avevano contatti emotivi con gli adulti il loro cervello non sarebbe mai cresciuto. Perché il cervello per crescere aveva bisogno di amore. Lui mi riaccompagnò all’hotel con la sua Mercedes cabrio sul cui cruscotto campeggiava un saggio di Alain Ehrenberg intitolato “La fatica di essere se stessi” e un pacchetto di cicche Brooklyn gusto cannella. Ci lasciammo senza baciarsi, ma con la certezza che si sarebbero rivisti il giorno dopo. Non lo sapevo ancora ma quello era stato il primo atto mancato della nostra storia. Sentii il suo sguardo seguirmi mentre entravo in hotel; la sera stessa prima di andare a letto mi masturbai pensando di scoparlo nel suo studio a fine giornata. Mi ricordai un aneddoto che lui mi aveva detto durante la cena su un suo paziente diciannovenne la cui madre si addormentava ogni sera chiedendo a lui di abbracciarla da dietro con il pene appoggiato alla schiena e di come lui avesse provato un poco ortodosso e deontologico senso di eccitazione. Mi addormentai dopo aver rimurginato ben dieci minuti con gli occhi spalancati e fissi sul soffitto sul perché lui non mi avesse baciata e mi tranquillizzai dopo che lui mi scrisse esattamente un’ora dopo che si eravamo lasciati: “Si vede che hai letto al di là del principio del piacere. Che rarità trovare donne che conoscono la metapsicologia freudiana!”. Rilassata, bevvi una vodka mini dal frigobar della stanza. Mi masturbai, ancora, ricordandomi il suo viso e una volta venuta mi rasserenai cullandomi nella dolcezza del miele celebrale di quell’ultimo messaggio che lui mi aveva scritto.
Il giorno dopo, la domenica, lui mi invitò nel pomeriggio a fare un giro in barca con due suoi amici e mi disse di farmi trovare a Camogli. Mi assicurai che la barca fosse abbastanza grande per accogliere Bruno e lui disse di sì. Presi il treno e lui mi venne a prendere in stazione e mi portò al molo dove era arenata la barca. Postò una stories su Instagram taggando me e Bruno con il vento in faccia sulla barca. La sera cenammo a casa di uno dei suoi amici che era venuto in barca insieme a noi; visto che si era fatto tardi lui mi propose di restare a dormire a casa sua e prendere il treno l’indomani mattina. Accettai come il concorrente de Il milionario accetta il traguardo da sedicimila euro. Giunti a casa sua in macchina lo baciai e chiesi a lui perché non lo avesse fatto prima. Lui disse che non sapeva come comportarsi con una femminista. Risi. Atto-mancato-ho-perso-il-conto. Giunti a casa sua lui le fece vedere il suo studio, mi chiesi tra me e me perché su You Porn non ci fosse la categoria: “Fuck a therapist, buy not yours”. In una delle pareti dello studio ricolmo di libri di Luca era appeso un quadro rosso di Burri; mi ci persi dentro per molti secondi e mi eccitai. Andammo nel suo terrazzo pieno di piante e lui le fece una tisana. Lo baciai di nuovo e lui mi allontanò in una maniera che giudicai violenta per l’intensità emotiva del gesto. Mi disse che non era fidanzato, ma che stava vedendo una ragazza. Che non voleva creare sovrapposizioni. Forse più che un freudiano, era uno della Gestalt. Era sicuro che quella ragazza non sarebbe mai potuto diventare la “sua ragazza”, ma era altrettanto sicuro che meritava una malsana forma di rispetto. Mi disse che ci saremmo rivisti a Milano in termini più intimi tra un po’ di tempo, che doveva avere fede. La Chiesa non la smetteva di rovinare le cose. “Sei arrabbiata”, le disse lui. “No” dissi in tono perentorio, l’ira mi sembra un sentimento troppo aulico da sviluppare nei tuoi confronti”. Lui le disse che doveva andare a letto e che sarebbe arrivato il primo paziente alle nove l’indomani mattina. Gli dissi che avrei scritto qualcosa a partire da quella storia. Lui gli disse che scrivere una storia poteva essere una buona forma di sublimazione post-traumatica. Si comportava come Wallace Shawn in quel film di Allen quando parla con la morte e intanto gioca non la smette di giocare scacchi. In maniera aritmica, surreale e razionale.
Si comportava come Wallace Shawn in quel film di Allen quando parla con la morte e intanto gioca non la smette di giocare scacchi. In maniera aritmica, surreale e razionale.
L’indomani mattina mi svegliai all’alba e sentì Luca russare nell’altra stanza (in uno sforzo cognitivo estremo, mi immaginai come sarebbe stato sentirlo venire, ma me ne vergognai subito dopo). Andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua, presi un post-it da un blocchetto giallo scarico appoggiato sopra il tavolo e la Bic blu che si trovava accanto e scrissi in stampatello: PAZIENTE DELLE NOVE, AL POSTO TUO NON ENTREREI. Nell’uscire da quell’appartamento constatai infine con soddisfazione che Bruno aveva fatto la pipì di fronte alla stanza in cui ancora dormiva Luca.